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Lo so, è come parlar di corda in casa dell’impiccato.


Comunque, se vi interessa…

Domenica pomeriggio. Brutto momento: forse come capita spesso, la domenica. Non sono in moto, in giro, con la compagna, gli amici. Allora penso. Penso alla mia vita, ai miei sogni, le mie speranze, le mie illusioni. Scavo, penetro. Cerco di capire me stesso. Penso alla mia passione: andare in moto. Quando è nata, come, perché. Quando è nata lo ricordo, come fosse ieri, malgrado siano passati vent’anni. Forse l’avevo già dentro da prima, senza saperlo. Aspettava di venir fuori. Ero a Procida, era agosto. Avevo conosciuto un ragazzetto come me, si andava in bici in giro o in barca di nascosto. A casa sua c’era un giornale, non lo avevo mai visto. Era Tuttomoto. Lo aprii, iniziai a sfogliarlo senza leggerlo. Guardavo le figure. Erano foto di uomini in moto. Uomini che saltavano, piegavano, ficcavano il capo in mezzo ad un manubrio. Rimasi senza fiato, stupito, ammirato. Mi ero innamorato, ma non lo sapevo. Mi lanciavo sulla bicicletta in discesa verso il porto convinto di essere anch’io su una moto. Rimanevo fermo a guardare le moto che passavano. Prima di ripartire, finite le vacanze, chiesi al mio amico di darmi quel giornale. Dissi proprio così: quel giornale. Mi guardò strano, poi tornò dopo qualche minuto: mi aveva portato il Playmen del fratello maggiore. No, non questo, volevo quello con le moto: mi guardò ancora più strano, ma me lo diede. L’ho conservato per anni, poi, senza motivo un giorno l’ho buttato. L’ho buttato con altre cose che avevo conservato nel corso del tempo. Stupido.

Finalmente compii quattordici anni. Uno dei vantaggi di avere dei fratelli maggiori (Playmen a parte) è che loro fanno le battaglie per avere qualcosa, e tu dopo lo hai perché lo hanno avuto loro. Mio fratello aveva avuto il motorino, spettava pure a me: sacrosanto. Solo che mi toccò, come a mio fratello, un Motebecane. Volevo il Malaguti custom, sembrava una moto vera. Però scoprii che il Motobecane era molto più veloce. Era stupendo. Ci andavo a fare il cross sui campetti fuori città, poi abbassavo il manubrio e diventava una sportiva. Ma soprattutto aveva una bella sella lunga su cui far accomodare le fanciulle. Cambiavano spesso. Finivamo sempre fermi su qualche panchina in zone ben trafficate, in modo che io potessi guardare le moto che passavano. Per questo cambiavano spesso. Fino ai diciotto anni ho passato quasi tutti i miei pomeriggi in sella a qualche motorino, oppure a smontarli e truccarli. Qualche anno fa ho letto un articolo secondo cui la fase migliore della propria virilità un uomo ce l’ha a diciassette anni. Me lo potevano dire allora, avrei passato qualche pomeriggio in meno chiuso nel box.

A diciotto anni potevo finalmente guidare una moto. Tutti i soldi risparmiati nei modi più vari stavano per adempiere alla loro missione: farmi entrare in possesso di una Cagiva Alazzurra 350, semicarenata. Grigia. Comprata senza avere ancora la maggiore età. Ferma nel box in attesa che la potessi guidare: i tre mesi più lunghi della mia vita. Il giorno del mio compleanno, alle cinque del mattino ero in sella. Mi fermai alle undici di sera. La lavavo quasi tutti i giorni, le davo la buonanotte tutte le sere e il buongiorno ogni mattino. Festeggiavo il Natale e il Capodanno. E non dimenticavo mai di portarla in giro il giorno del suo compleanno. Le battevo la mano sul fianco del serbatoio se sulla costiera eravamo stati bravi oppure la carezzavo se non avevo i soldi per la benzina. Le parlavo. Dopo circa tre anni decisi che i suoi trecentocinquanta centimetri cubi erano pochi. Lavorai come un matto tutta l’estate. A settembre le mie fatiche partorirono un kit Gio.ca.moto che trasformava la moto in una cinquecentoquaranta. Scarico due in uno Conti, cornetti sui carburatori: ero invincibile, credevo. Ma lo pensavo davvero. Correvo come un matto, se vedevo un segnale di curva pericolosa davo gas. La moto ondeggiava e davo gas. Il cavalletto strisciava e io davo gas. Le cadute, gli incidenti, succedevano agli altri. A quelli che il gas non lo sapevano dare. Dimenticavo, nel frattempo mi ero iscritto all'università, giurisprudenza. L’esame andava male e io davo gas. Litigavo con la morosa e allora davo gas. Comprai anche una tuta in pelle. Bianca con i colori Pepsi, come quella di Kevin. Un mese dopo la Suzuki firmò la nuova sponsorizzazione con la Lucky Strike.

Poi lo Stato si ricordò di me. Mi voleva tutto suo per dodici mesi. Non potevo certo rifiutare. Chiesi di prestare servizio civile, e, poiché ne avevo diritto, con una madre invalida e ad un esame dalla laurea, chiesi anche di poterlo fare nella mia città. Certo, ci mancherebbe, mi dissero al distretto, se lei va fuori a sua madre chi ci pensa. Mi spedirono a cinquecento chilometri da casa. Ci andai in moto, ma senza dare il gas. Arrivai in una casa famiglia, dove mi accolse un uomo sulla quarantina in sedia a rotella. Vide la tuta e il casco. Complimenti, sei venuto in moto, disse. Anch’io andavo in moto, avevo una cb 750. Poi presi una scivolata e urtai con la schiena contro una pietra miliare: adesso di ruote ne ho quattro. Il giorno dopo comprai un paraschiena.

Dovevo fare trentasei ore la settimana, ne facevo centoventi. Qualche volta mi capitava di avere la domenica libera e allora prendevo la moto. Andavo su e giù per le strade dell’Umbria. La paura per le pietre miliari mi passò presto, perché gli altri cadevano, io no. Mi ingarellavo con tutti. Sul valico di Colfiorito mi accodai ad un cbr 600. Era veloce e bravo. Adesso lo passo in staccata, pensai. Curva a destra, mi metto interno, aspetto di vedere il suo stop che si accende e poi tiro la leva: la leva tocca la manopola e io vado dritto. Per fortuna (fortuna? ma se le cose brutte capitano solo agli altri!) non tamponai il cbr e dall’altra parte non arrivava nessuno. Mi fermai sul ciglio della strada nell’altra corsia. Un altro mezzo metro e volavo giù. Però sarei arrivato per primo a valle.

Tornai a casa che ero più bianco della tuta. Narrai a Maurizio, l’uomo sulla sedia a rotelle, cosa era successo. Mi raccontò che anche a lui capitarono un paio di episodi simili, ma non se ne curò. Per lui era un avvertimento che il dio dei motociclisti mi aveva mandato. Avrei dovuto ascoltarlo.

Lo feci, e, terminati i miei obblighi con la patria, rientrato nella mia città, decisi di cambiare moto. Avrei preso qualcosa di tranquillo, non adatto alla guida sportiva. Una bella Moto Guzzi, per la precisione una 850 T4, con sedici anni di vita sulle spalle. Ma era messa bene e poi era perfetta per viaggiare. Avrei dovuto vendere la mia Alazzurra, ma non ne avevo il coraggio. Ne avevamo passate tante. Come quando si ammutolì alle due di notte in cima ad un passo appenninico, a cento metri dal cimitero. Dimenticavo, pioveva. Aspettammo fino all’alba, insieme, che passasse qualcuno per darci una mano, con le fiammelle dei fuochi fatui a tenerci compagnia. Ma non ero arrabbiato con lei. Era fatta così. A volte decideva che era meglio che a funzionare fosse un cilindro solo e non tutti e due. Sicuramente sapeva che avevo pochi soldi e voleva farmi risparmiare sulla benzina.

Comunque, due moto non le potevo mantenere. Decisi allora di prestare la Cagiva ad un mio amico, che aveva tanta voglia di moto, ma ben pochi denari da investire. Gli dissi che l’assicurazione e i tagliandi erano a carico suo e che la moto poteva tenersela quanto gli pareva. L’importante era che la trattasse con amore. La distrusse in un incidente, ma me lo tenne nascosto. Lui per fortuna non si fece nulla. Lo seppi per caso. Avevo mandato la Guzzi in officina e ne avrebbe avuto per parecchio tempo. Chiesi al mio amico di prestarmi la moto per qualche giorno. Dopo una settimana di scuse strampalate, mi disse la verità. Non mi arrabbiai per la moto, ma per le bugie che mi aveva raccontato. Credo di non avere avuto mai la capacità di spiegarglielo. Ho perso un amico da stupido.

Era iniziata la convivenza con la paciosa Guzzi. Mi ero laureato e stavo lavorando. La mia compagna sembrava essere quella giusta. Insomma, le cose giravano bene. Potevo finalmente permettermi le vacanze in moto. Caricai di tutto sul trattore e partimmo. Girammo un po’ per l’Italia, senza pretese, felici. Certo eravamo viaggiatori inesperti, ma non importava. Come era bello incrociare, carichi di bagagli, altri motociclisti. Sembravamo viaggiatori di lungo corso pronti per andare in Mongolia passando dall’Argentina.

L’anno successivo optammo per le Dolomiti. Cime stupende e strade perfette per quella guida di gas che oramai non praticavo più. La moto non me lo permetteva, e poi non mi sentivo più così invincibile. Iniziavo a capire che ero stato solo incosciente. E fortunato. Grazie dell’avviso, dio dei motociclisti.

Più passava il tempo e più apprezzavo questo guidare con calma, guardandomi intorno. Avrò fatto la costiera amalfitana cento volte con la Cagiva, ma ho visto quanto fosse bella solo con la Guzzi.

Ma mi mancava qualcosa. Ero insoddisfatto. Mi perdevo sempre più spesso a immaginare grandi staccate, pedane che strisciavano, impennate in accelerazione fuori dalle curve, scodate di potenza. Al rientro da una estate passata senza moto, mi resi conto che mi mancava. Ma non la mia moto. Mi mancava dare il gas. Mi mancava quel senso di invincibilità. E poi, pensai, avevo già fatto penitenza. Vendetti la Guzzi, che carogna, e comprai una quattro cilindri giapponese. Non una sportiva pura, non per falsi pudori, ma solo perché mi serviva anche per andarci con la mia bella in vacanza. Quindi optai per una sport touring. Né carne né pesce. Ma brava a fare il suo lavoro. Una piccola parentesi. Sono sempre stato contro il made in japan. Senza motivo. Solo che, secondo me, le moto italiane sono migliori. Sapete quelle stupidaggini sul carattere e la personalità. Bravi, proprio per questi motivi. Però di fronte a quel prezzo di listino stracciato, ho ceduto.

E’ un paio d’anni e molte migliaia di chilometri che andiamo in giro insieme. Se sono solo, apro il gas. Però lo faccio con più attenzione. Preferisco lasciarmi superare, piuttosto che rischiare. Qualcuno dice che è normale, con gli anni che passano. Si cresce, si matura e quella incoscienza dei vent’anni passa. Guidi meglio, magari sei anche globalmente più veloce, però…Però com’era bella quell’incoscienza.





Fabio SERGIO


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