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Un giro a Cellole
Ho dormito poco, giusto quelle ore che servono a non svenire per la strada. La sveglia, la lascio suonare per un po’ poi la spengo e mi riaddormento. Apro gli occhi di colpo: sono in ritardo!
Sono molto in ritardo! Ho venti minuti: bagno, colazione, mi vesto nel modo più caldo e comodo possibile, prendo il casco e via.
Scendo, fortunatamente Ivan è più in ritardo di me! Lo vedo arrivare da lontano, giuda una due ruote giapponese verde e nera, agile e veloce come un antico guerriero orientale. Indossa la sua seconda pelle e un casco tutto nero.
Salgo in sella:
“Ci sei?”
“Ci sono”
Si parte, destinazione: Cellole.
Fabrizio ci aspetta all’entrata della tangenziale sulla sua CBR, poi un suono, come un ruggito lontano, è Massimo sulla sua nera Fazer.
Entriamo in tangenziale, entra la marcia, la velocità aumenta, l’aderenza diminuisce, il peso si sposta e la moto si alza su una ruota sola. L’atterraggio è morbido, il mio casco sfiora quello di Ivan mentre il vento aumenta in funzione della lancetta del tachimetro. Il collo sembra quasi non reggere, il casco quasi schiaccia il naso, le mani non toccano più il serbatoio, appoggio il casco a quello di Ivan e un po’ il vento diminuisce. Poi rallenta, le mani tornano sul serbatoio, faccio pressione sulle braccia e dopo la frenata rialzo finalmente la schiena, siamo all’area di servizio, Fabrizio è a corto. Raggiungiamo Massimo, su le visiere, qualche sorriso, poi arriva Fabrizio, si riparte, ma prima Ivan mi dice di tenermi, so cosa intende. Impenna, l’atterraggio è un po’ più brusco, una mano sul serbatoio, l’altra a contatto con la pelle della tuta. Il collo fa di nuovo male, ma quasi non lo sento, sento il vento arrivarmi contro, mi rilassa come un idromassaggio, la bandana aderisce al viso, ne prende la forma, il respiro è calmo, i muscoli un po’ contratti. Si va avanti per circa quaranta km, poi ecco un paesino, al primo semaforo altri motociclisti: Honda, Kawasaki, Aprilia, Yamaha, c’è di tutto e tutto insieme, si muovo no in branchi per ritrovarsi con i propri simili.
La strada davanti a noi è un rettilineo senza fine, scatta il verde, abbasso la visiera, la moto si alza quando finalmente in lontananza si intravede la pista.
E’ come una sorgente a cui tutti vanno ad abbeverarsi, un ritrovo e io mi sento a casa.
Parcheggiamo, scendo dalla moto e sfilo il casco:
“Questo posto già mi piace”
Ci avviciniamo alla pista, un RS250 ci sfreccia davanti, Massimo la cronometra: quarantatre secondi. La piccola moto corre e piega come un ghepardo che insegue la sua preda, qual è la preda? La velocità massima, l’emozione allo stato puro.
Dopo poco Ivan e Fabrizio entrano in pista. Corrono per un quarto d’ora e per un quarto d’ora sono soli con la loro moto, la pista e le loro emozioni.
Guardo quel posto, moto che vanno e vengono, corrono e impennano, ragazzi, motociclisti, parlano come se si conoscessero da sempre, la moto li unisce, un’unica passione, un’unica filosofia.
E infine si riparte, bandana, casco e guanti, giù le pedane e in sella, mani sul serbatoio e una voce:
“Ci alziamo?”
“Ok”
“Tieniti”
Mi tengo, la moto impenna, resta su per qualche secondo e qualche metro, davanti solo la strada.
Sali in sella (nasci), parti piano (impara), accelera (cresci), piega (rischia), impenna (pretendi sempre il massimo).
E ora si va, il corpo si sta abituando e dopo aver fatto benzina una strada dritta fino a casa, la mente è libera, mi allontano dal mondo di tutti, entro nel mio mondo, chiudo gli occhi, cosa c’è oltre quella curva? Lascio tutto alle mie spalle, affido questo giorno alla mia memoria, ho fiducia in lei e la prego di conservare queste emozioni per sempre per non farmi mai dimenticare cosa si prova ad essere liberi sul serio.

Ded. A Ivan che come un fratello mi ha offerto la sua sella e la sua esperienza insegnandomi a scegliere le strade migliori da seguire in questa lunga tirata in moto che è la vita!

Giovanna
Napoli 7/06/2002
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